Giovanni Papini e Firenze
La città che non dovrebbe essere solo un museo
Una critica futurista contro l'immobilismo culturale
Era la sera del 12 dicembre 1913, e il Teatro Verdi di Firenze era gremito di persone pronte ad assistere a un evento che avrebbe fatto parlare di sé per lungo tempo: la "Serata Futurista". Tra i protagonisti di quella serata, si distinse la figura di Giovanni Papini, scrittore e intellettuale di spicco della prima metà del XX secolo, noto per il suo carattere provocatorio e il fervore con cui esprimeva le sue idee.
Ma quella notte, Papini non era lì per celebrare la bellezza di Firenze, la sua città natale. Al contrario, con un intervento tagliente e controcorrente, il celebre autore si scagliò proprio contro la sua città, dipingendola non come la culla dell'arte e della cultura che tutti conoscevano, ma come una realtà stagnante, soffocata dal peso di un passato glorioso che stava impedendo ogni possibilità di rinascita.
La denuncia di una città intrappolata nel passato
Con tono deciso, Papini iniziò il suo discorso descrivendo Firenze come la "culla delle arti, Atene d'Italia, focolare della Rinascenza e madre feconda d'ingegni", espressioni che fino ad allora erano state usate per esaltarne la grandezza. Ma subito dopo, con un colpo di scena, ribaltò completamente questa retorica. Secondo Papini, quella Firenze, che un tempo aveva dato i natali ai più grandi artisti e pensatori, si era trasformata in una città stagnante, incapace di innovare e vivere con il vigore di una volta.
Papini non risparmiò nessuno nella sua critica. Per lui, gli uomini d'ingegno a Firenze erano stati oppressi, schiacciati da una società che preferiva guardare al passato piuttosto che accogliere nuove idee. La sua simpatia per la città era limitata al fatto di essere egli stesso fiorentino, ma non si sentiva certo orgoglioso di ciò che Firenze era diventata. Persino il suo rispetto era riservato a un solo concittadino, lasciando intuire quanto poco considerasse il resto dell'intellighenzia cittadina.
L'arte dell'ironia e dell'inganno
Una delle caratteristiche che Papini riconosceva ai fiorentini era la loro abilità nell'arte dell'inganno e dell'ironia. Questo tratto, in passato, aveva portato alla nascita di figure brillanti, ma ora, secondo lo scrittore, non poteva più bastare. L'ironia, che in epoche passate aveva dato vita a satira e letteratura di spessore, era diventata un rifugio, una scusa per giustificare l'immobilismo.
Papini esortò Firenze a liberarsi da questo fardello, a scrollarsi di dosso il peso di un passato che, pur essendo magnifico, stava ormai diventando un ostacolo insormontabile per qualsiasi forma di innovazione. La sua invettiva fu un appello alla città affinché ritrovasse la propria vitalità e abbandonasse la sua ossessione per la conservazione di un patrimonio che rischiava di trasformarla in un museo a cielo aperto, piuttosto che in un luogo vivo e pulsante.
Un futuro a rischio
Nelle sue parole, Papini delineò un futuro inquietante per Firenze: se nulla fosse cambiato, la città sarebbe diventata un'enorme attrazione turistica a pagamento, una sorta di parco tematico per turisti alla ricerca di un'Italia da cartolina. "Alberghi, pensioni, caffè turistici, antiquari e rigattieri" avrebbero continuato a moltiplicarsi, trasformando il centro storico in una trappola per chi veniva da fuori, alla ricerca di un'esperienza autentica che, in realtà, non esisteva più. Secondo Papini, bisognava porre fine alle botteghe che vendevano copie d'arte e oggetti antiquati, un commercio che aveva ridotto Firenze a una caricatura di se stessa, incapace di esprimere la propria autenticità. La città non poteva più vivere del proprio passato, e tanto meno di un passato distorto e venduto a pezzi ai visitatori.
La condanna delle istituzioni
Il fervore critico di Papini non si fermò ai commercianti e alle attività turistiche. Egli puntò il dito anche contro le istituzioni culturali che, secondo lui, avevano contribuito all'immobilismo della città. L'Accademia della Crusca, per esempio, era considerata inutile, un'istituzione che anziché promuovere la vitalità della lingua italiana, si limitava a preservarla in una forma ormai sterile e priva di futuro.
Allo stesso modo, Papini riservò parole dure per le fondazioni e le società dedicate a Dante e Leonardo, nonché per i restauratori, i commercianti d'arte e gli studiosi. Per lui, queste entità non facevano altro che sfruttare il passato glorioso della città a proprio vantaggio, vendendo pezzi di storia e cultura ai turisti, senza alcuna preoccupazione per la loro autenticità o il loro reale valore.
Una critica feroce a chi sfruttava i turisti
Papini non si limitò a criticare le istituzioni, ma allargò il suo sguardo anche a professori, guardiani di musei, eruditi e studiosi di Dante. Tutti loro, secondo l'autore, avevano avuto un ruolo nel trasformare Firenze in una meta per gli snob, una città dove la cultura era diventata un prodotto da vendere e non più un valore da coltivare. Era una realtà che Papini non poteva accettare, e per esprimere il suo disprezzo arrivò a dire che queste persone meritavano di essere "buttate nell'Arno". Una frase forte, provocatoria, che mirava a scuotere le coscienze e a svegliare la città dal torpore in cui era caduta.
Il paradosso di una città che vive di passato ma teme il futuro
Le parole di Giovanni Papini rimangono, ancora oggi, un monito per Firenze. La sua critica, pur essendo aspra, nasceva dall'amore per una città che lui avrebbe voluto vedere rifiorire. Il paradosso era chiaro: Firenze, culla del Rinascimento e della creatività, sembrava incapace di reinventarsi, intrappolata in un passato che era ormai diventato una prigione dorata.
Il fervore futurista di Papini lo portò a scontrarsi con chiunque cercasse di mantenere lo status quo. Egli voleva una Firenze dinamica, capace di creare, innovare e stupire come aveva fatto nel passato, e non una città che si limitava a replicare formule già sperimentate, offrendo ai visitatori un’idea fossilizzata di sé stessa.
Riscoprire l'anima autentica di Firenze
Il discorso di Giovanni Papini alla "Serata Futurista" è una delle testimonianze più potenti di un periodo in cui l'Italia, e Firenze in particolare, erano chiamate a scegliere tra la conservazione e il cambiamento. Le sue parole ci spingono a riflettere sul rischio di vivere solo del passato, senza guardare al futuro. Papini credeva in una Firenze che poteva, e doveva, riscoprire la propria anima autentica, senza paura di innovare e di osare, anche a costo di rompere con tradizioni che ormai sembravano solo zavorre.
Ancora oggi, la sua critica risuona come un invito a non cedere alla tentazione di accontentarsi, di lasciare che la città diventi una semplice cornice per fotografie turistiche, ma a renderla viva, dinamica, e sempre capace di ispirare nuove generazioni di artisti, pensatori e visionari, come aveva fatto nei secoli passati.
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